Davanzale per l’apocalisse: Alfonso Gatto parla di Montalcino

Alfonso GattoEsponente dell’Ermetismo, nacque a Salerno nel 1909, e dopo una giovinezza burrascosa si trasferì a Firenze. Qui nel 1938 fondò con Vasco Pratolini la rivista d’avanguardia “Campo di Marte”, e proprio nel capoluogo toscano frequentò e divenne amico del montalcinese Alceste Angelini, con cui condivise studi, tempo libero e passioni letterarie, insieme ad altri scrittori e artisti. È Alfonso Gatto del quale, tratto dalla rivista “Terra di Siena” (anno XVI n. 3) riproponiamo integralmente un articolo che l’ermetico scrisse su Montalcino.

“La libertà, una bella parola che piace a tutti, qui a Montalcino, è ormai la libertà di essere soli, in quiete, davanti ai panorami aperti all’orizzonte, e soli più ancora nella calma che resta d’ogni tumulto e d’ogni guerra dopo secoli di storia. Oggi, la piccola città che parteggiò per Firenze e dopo Monteaperti si sottomise a Siena, può essere detta anche paese, senza che gliene venga offesa o disdoro. Non perde i monumenti che ha, può farsi vanto perfino della fortezza che le misero in casa i Senesi per ammonirla di ogni velleità d’indipendenza dopo due tentativi di rivolta. E in più fa suo, letificato dal sole, dal silenzio e dalla calma delle memorie, un angolo tranquillo di mondo ove i vecchi invecchiano bene sino alla longevità. A ritrovarli, i giovani costretti a partire sono sorpresi di vederli ancora e quasi misurano su loro non so se il proprio rimpianto d’esuli o il proprio contento. Sono stato a Montalcino due volte, e in due giornate del tutto diverse. Una prima volta solo con l’amico poeta Alceste Angelini, una seconda volta in una domenica di festa. La città con bandiere, stendardi, trombe e clarine sembrava aver ritrovato di colpo i personaggi della libertà senese. Aggiungerò che delle due giornate la prima resta indimenticabile, come indimenticabile resta il paese di oggi difronte alla città di ieri, la fortezza con i bambini che dormano al sole nelle culle e le mamme sedute sotto i bastioni di fronte alla fortezza evocata nel tempo e fuori dal tempo a far da scena al patto di distensione o di aggressione tra Senesi e Fiorentini.
Muoviamoci allora soli in questo lieto paese di colle che da 564 metri d’altezza domina tre valli, soli con la sua aria pulita che traccia al vivo le architetture , con lo spicco stesso della parlata ch’è sulla bocca dei contadini venuti al mercato sotto l’ampia loggia del Palazzo pretorio e con la nettezza ch’è tra l’ombra e il sole . in sottovoce, il brusio, i piccoli rumori della vita, i richiami da casa a casa, scovano ancora nel paese un borgo più intimo, nel borgo si rintraccia la stradina, le case a un piano o a due piani di qua e di là con le porte a vetro merlettate, i vasi di fiori e i gatti all’erta, via Spagni, ad esempio, che finisce con una gradinata erbosa alla chiesa della Madonna del Soccorso, davanti ad uno dei più inaspettati paesaggi di Toscana: a sinistra verso la Maremma, al centro verso Siena, a destra verso San Quirico d’Orcia, Pienza e Montepulciano.
L’orizzonte all’altezza delle sue solitudini e quello stesso che D’Annunzio vide alle spalle del marinaio di Montalcino nelle pagine ch’egli dedicò alla “Beffa”: “ … scopro dietro di lui la cruda terra senese, vedo lo sfondo della Val d’Orcia mutula e severa, con le sue crete, con le sue rupi, con i suoi cerri, con le sue pievi, con le sue badìe con le sue grance … ”. C’importa meno, lo confessiamo, la “virtù civica inerpicata e abbarbicata sul monte comunale” che arde “lo ultimo stendardo della libertà” e infrange “l’utlimo conio della moneta che porta l’Assunta e la lupa romana”. Interessava meno anche a lui.
Dal suo palpito, dai suoi cenni stravolti, dalla sua brulicante fermezza, quella visione, esposta all’ombra improvvisa e allo squallore delle latitudini, approfondiva a poco a poco i colori delle sue terre in un umido quasi copiativo che ne fondeva misteriosamente le trasparenze - il rosso nel viola, nel bruno, nell’amaranto nel blu: il verde nel grigio, nell’ocra, nell’azzurro - con la sospensione di una pace che via via accendeva le sue miriadi luminose, i vuoti e le carie, gli anellini serpentini delle crete fissi nel nero.
Come dar tempo (“due ore” dicono le guide) a una visita che è sempre sospesa alle emozioni? Il visionario guarda, lascia persino i piccoli musei e le chiese, e immagina quale potrebbe essere la sua vita qui, affacciato a questo muretto. Il paesaggio è ormai zittito dall’infinito traslato nel visibile d’ogni colore, come i luoghi apprendono e saldano nell’idea dello spazio la propria traccia durevole e i termini della luce.
È la patetica grandezza del silenzio che s’appropria delle sue cadute vuote, senz’aria: agro il cielo dei freddi ch’è già verde, prossima la sera a mezzo il giorno. Montalcino, incisa e nuda, si illumina. Nell’essere, più che vivere, ricorda di vivere, come a noi piace, con la lunghezza infinita d’ogni tempo breve che sia ancora della vita, senza storia e senza cronaca, esaudendo il valore di ogni levata per ogni giorno al suo balcone.
La faremo qui, ragazzi delle lettere, una nostra repubblica? Qualche anno fa - mi dice Angelini - Bilenchi venne a tracciare i primi confini. Ci stette un mese e ogni giorno era al parapetto della Madonna del Soccorso. Se uno scrittore guarda un panorama lui che è abituato a dar valore ad un muro senza valore, a una sedia, a una porta, state sicuri che non chiede iperboli alla sua grandezza, ma un posto nella modestia universale di cui ama vivere. La faremo allora questa repubblica? Ma dove sono i ragazzi e i poeti ancora capaci di avere un cenno, un “di là” dai confini e tutto il cielo addosso?
Montalcino dal poggio dello Osticcio, il cimitero, la pineta e l’Amiata in fondo: Montalcino dal prato della chiesa di San Francesco. Il paese torna a farsi città, ma per l’agreste lindura con cui l’uomo è riuscito ad agghindare un colle di ulivi, a figurarlo nella naturalezza con le sue case di pietra. Un gusto innato e civile fa discreti anche i monumenti dosati nell’area delle sue mura. Solo il Duomo, come un inimmaginabile teatro neo-classico cerca di grandeggiare sulle piccole antiche chiese che continuano a parlare con voce corretta, S. Agostino, S. Egidio, Santa Croce. È l’unico eccesso pubblico e paesano, ancor più manifesto ove si trovi a passargli davanti una donna abituata col suo passo e con la nativa stringatezza fra busto e sottana a costeggiare piccole case, erte, e scarpucce tracciate nel tempo pietra su pietra.
A Montalcino, caro Alceste, io te e qualche altro staremmo bene. Forse troveremmo persino modo di tentare un giornale, un giornale, senza fatti, come un itinerario di passeggiate e di gioie segrete prima della pagina, prima della nausea. Daremmo volentieri alla storia le sue vittorie, pur di meritare in pace le sconfitte e persino l’indisponenza nostra.
Perché l’unica vera notizia che dà il tempo in questi paesi ormai sensibili come pochi altri alla fatica e al dolore quotidiani è proprio questa notizia nell’essere, questo tentativo di avere un posto nella modestia universale, un modo di guardare all’orizzonte “di là”. Così è Montalcino, immagine di pace per chi non l’ha e non può darla, paese di vacanze per chi è attento al vuoto e quasi alla spossatezza della sua lucidità e del suo allarme.
Non è un ragguaglio turistico: come potrebbe esserlo? Ma mi comprendano gli sconosciuti amici di Montalcino. un paese così antico che suggerisce per la sua pace la notizia del quotidiano e il bisogno dell’essere, è un paese che ha una libertà endemica. È un paese di confidenza e insieme un davanzale per l’apocalisse”.

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