Il Brunello di Montalcino di Case Basse di Soldera, che spunta in media 600 euro a bottiglia, al pari del Masseto di Frescobaldi e subito dietro al Barolo Monfortino Riserva di Giacomo Conterno (700 euro), e poi in quarta fascia il Brunello di Montalcino Riserva di Biondi Santi, e in settima il Brunello di Montalcino di Poggio di Sotto e il Brunello di Montalcino Cerretalto di Casanova di Neri: sono le etichette di Montalcino tra i 30 vini italiani più forti nelle aste, secondo la “Classificazione dei Grandi Cru 2024”, aggiornata da Gelardini & Romani Wine Auction, unica casa d’aste specializzata in vini italiani, nata a Roma ma di base ad Hong Kong, e guidata da Flaviano Gelardini e Raimondo Romani. Una classifica realizzata in base ai maggiori livelli di prezzo e alla minore percentuale di lotti invenduti registrati dalla Gelardini & Romani Wine Auction a partire dal 2004.
“I vini italiani che abbiamo classificato come Grandi Cru - spiega Raimondo Romani, a WineNews - hanno fatto una crescita impressionante, siamo passati da un prezzo medio delle etichette top del 2004 intorno ai 200 euro, a quello di oggi che è oltre i 700 euro, una crescita esponenziale. Con il Piemonte che domina in assoluto, con i grandi vini da Nebbiolo (Barolo e Barbaresco), ma crescono tutte le denominazioni più identitarie, dal Brunello di Montalcino al Trebbiano d’Abruzzo, oltre ai vini dell’Etna, come già avevamo predetto nella classificazione del 2009. Rispetto al passato, l’aspetto identitario, l’essere legati al territorio e all’italianità premia molto: non rincorriamo più i vini francesi - aggiunge Raimondo Romani - ma c’è un’identità italiana che ha un suo valore e viene premiata molto di più, si sta affermando, e con un certo rallentamento dei vini di Bordeaux, ormai da tempo, ma che ora sta toccando anche la Borgogna, da un enorme spazio alla crescita del vino italiano”.
Un altro cambiamento importante, sottolinea ancora Romani, è che “il collezionismo vuole, comunque, vini maturi, ma rispetto al passato la preferenza è per vini che abbiano al massimo 30 anni. Non c’è più quella ricerca che c’era fino a poco tempo fa degli “over 50”, c’è più consapevolezza. Il pubblico ha raffinato gusto, percezione e competenza, si cerca l’apice della maturità, piuttosto che vini stravecchi, e questo è importante da capire perchè superato quell’apice che è il momento migliore per vendere, perchè poi il vino perde valore”.
“Mai come in questo aggiornamento siamo rimasti colpiti dalla crescita di valore del vino italiano e di come, guardando indietro, la nostra Classificazione abbia sempre rispecchiato in maniera puntuale le tendenze e le preferenze del pubblico. D’altra parte la mole e la qualità dei dati che abbiamo potuto analizzare - spiegano Gelardini & Romani - sono un patrimonio unico al mondo. Se a cavallo fra il Novecento e gli anni Duemila le preferenze del pubblico erano orientate prevalentemente a quelle etichette nostrane di stampo bordolese o di grande struttura, particolarmente apprezzata da un pubblico neofita nordamericano, che allora rappresentava il principale mercato per i nostri vini pregiati; oggi possiamo dire che, anche grazie alla crescita del mercato asiatico, generalmente dotato di un palato più “delicato” rispetto agli anglosassoni, sia conclamata la preferenza per vini eleganti, identitari, autoctoni, monovarietali e prodotti in maniera tradizionale”. Una “rivoluzione copernicana”, la definiscono Gelardini & Romani, in un contesto, quello dei vini collezionabili che, a livello mondiale, sono nell’ordine di poche centinaia.
“La collezionabilità di un vino non dipende dalla sua “bontà”, che insieme alla capacità di invecchiamento sono prerequisiti fondamentali, ma piuttosto dalla sua “unicità” che si declina partendo dalla storia, passando per le caratteristiche organolettiche, che ne definiscono lo stile, rappresentativo di un determinato momento storico. Il gusto non è assoluto e immanente - sottolineano Gelardini & Romani - ma varia e si evolve nel tempo, sia a livello individuale che nel corso della storia. A livello individuale abbiamo riscontrato che la stragrande maggioranza degli appassionati e collezionisti contemporanei si è avvicinato a questo mondo a partire dai vini rossi di Bordeaux per poi estendere la propria conoscenza ad altre tipologie e territori; a livello storico, durante i primi anni del Novecento, erano i Riesling della Mosella i vini più cari, anche nei ristoranti parigini. Ma, già nel primo Dopoguerra, sono i vini di Bordeaux a raccogliere lo scettro dei vini più pagati; scettro che, nel primo quarto di questo secolo, passa ai grandi Borgogna; mentre i Riesling della Mosella avevano ormai perso l’attenzione dei collezionisti, finendo quasi nel dimenticatoio, con conseguente ridimensionamento del valore. Allo stesso modo, ma guardando da una angolazione diversa, se 2000 anni fa la capitale mondiale dei vini era Roma - da dove fra l’altro si è diffusa la viticultura nel mondo - tra Ottocento e metà Novecento la capitale del vino era Londra.
Simmetricamente, se, nell’ultimo quarto del Novecento, il baricentro dei “fine wines” era New York, a partire dal primo quarto del secolo corrente la capitale dei “fine wines” diventa Hong Kong, dove, nel 2010, dopo l’eliminazione dei dazi di importazione, il fatturato delle aste di vino (a Hong Kong vivono solo 7 milioni di persone) era superiore a quello dell’intero mercato Usa (con oltre 300 milioni di abitanti). La conferma che i vini pregiati hanno da sempre svolto il ruolo di certificare lo “status” socio-economico, determinando ed alimentando anche una “geopolitica del gusto”. Non a caso se nella Roma antica i vini più pregiati, che solo i Patrizi potevano permettersi, erano quelli dalla Mosella e della Valpolicella (Vallis-polis-cellae), per la loro naturale dolcezza, mentre i plebei potevano al massimo addolcire produzioni locali con il miele; è londinese la paternità dell’ascesa dei “claret” di Bordeaux con la scoperta che le “barriques” da 225 litri usate per il trasporto, alla lunga, consentivano al vino di invecchiare meglio. Mentre è da New York che parte la riscoperta dei vini di Borgogna - fra i più apprezzati dal Medioevo alla fine del XVIII secolo - a partire dagli Anni Novanta del Novecento del secolo scorso per culminare poi ad Hong Kong dove è contemporaneamente cresciuta a dismisura, fino a scoppiare, la “bolla” speculativa attorno ai vini di Borgogna e l’ascesa del vino italiano passato in poco più di 30 anni, nell’immaginario dei collezionisti, dal vino del contadino nel fiasco ad un’alternativa con miglior rapporto qualità prezzo ma di pari dignità rispetto ai Grandi Cru francesi. Fatta questa debita premessa, il prezzo pagato sul mercato secondario è l’unico parametro univoco ed oggettivamente universale per classificare i vini da collezione.
Una forma di collezionismo, quella del vino, fra le più esclusive, costose e complesse: infatti, a differenza del tradizionale collezionismo di oggetti (arte, gioielli, orologi, monete, francobolli, auto e così via), il collezionismo di vino (che non è mai collezionismo di bottiglie di vetro) richiede un coinvolgimento di tre sensi: gusto, olfatto e vista. Il collezionista di vino - spiegano ancora da Gelardini & Romani - non è un mero accumulatore ma bensì un consumatore, perché il vino per poter essere apprezzato deve essere consumato ed il fatto che l’“apprezzamento” del vino determini, dopo il consumo, l’azzeramento del valore del bene, rende questa forma di collezionismo fra le più esclusive e costose. Consumare grandi vini blasonati è sicuramente un’attività dispendiosa, ma la centralità che la produzione nostrana si è conquistata nel mercato mondiale dei grandi vini, accanto alla Francia che ci surclassava fino a pochi anni fa, offre oggi a chi è presente sul territorio e sa comprendere le tendenze del mercato, straordinarie possibilità di investimento acquistando eccellenze nostrane, identitarie, ancora fortemente sottostimate. Il netto miglioramento della produzione vitivinicola Italiana, a partire dal lavoro in vigna per arrivare alla pulizia delle cantine e ad un sempre maggior rispetto nel trattamento delle uve che vi arrivano, hanno elevato significativamente la qualità anche dei grandi vini da collezione ma il cambiamento climatico è una seria minaccia, per cui il valore riconosciuto alle grandi vendemmie, data la maggiore rarità delle stesse e l’incertezza sul futuro è, se possibile, anche superiore a quello che gli poteva essere riconosciuto in passato”.